[ Visto l'approssimarsi delle elezioni presidenziali statunitensi, Diana
Johnstone ci invita a riflettere su una questione decisamente trascurata: la
politica di guerra dei Democratici e' - qualitativamente e/o quantitativamente
- diversa da quella dei Repubblicani? Oppure, ad ispirare la "logica del
bombardamento preventivo" sono sempre le stesse ragioni strutturali e la
stessa delirante convinzione di avere ogni diritto sulla vita e sulla morte di
interi paesi e popoli? Non sono domande solo retoriche: mentre il candidato
Democratico Kerry dichiara che, in caso di una sua vittoria, non ritirerà le truppe di occupazione
dall'Iraq, la lobby pan-albanese sostiene la campagna elettorale dei
Democratici. Il Kosovo colonia degli USA, governato dalle mafie che trafficano
in droghe, armi ed esseri umani, e ridotto a lager nazista per i serbi e le
altre minoranze, e' infatti un prodotto genuino delle politiche dei Democratici
Clinton e Tenet.
Un articolo importante, questo della Johnstone, di quelli che i commentatori
della “sinistra” italiana non scriverebbero mai... ]
da http://www.counterpunch.org/johnstone06242004.html
Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova
Clinton, Kerry e il Kosovo - L’Impostura di una “Guerra
Buona”
di Diane Johnstone
24 giugno 2004
Per i politici Statunitensi, se tutte
le loro guerre sono “buone”, alcune sono più “buone” delle altre.
I Democratici preferiscono le guerre di Clinton, mentre le preferenze dei
Repubblicani vanno alle guerre di Bush. Comunque, alla fine, tutti insieme, in
completa unanimità danno appoggio a tutte le loro guerre. Le differenze
riguardano solamente la scelta della specifica giustificazione logica
ufficiale…
Mentre esprimono un elusivo ed astuto critismo contro la guerra repubblicana
all’Iraq, ma mettono in chiaro che questo non significa un’opposizione alla
guerra come tale, coloro che conducono la campagna Democratica per le elezioni
Presidenziali del 2004 sono sempre pronti alla glorificazione della guerra in
Kosovo. A fare questo, in modo
assolutamente lampante nel campo Democratico, ci pensa il Generale Wesley
Clark.
Il consigliere per la politica
estera di John Kerry, Will Marshall dell’Istituto per le Politiche Progressiste,
autore di “Democratic Realism: the Third Way – il Realismo Democratico: la
Terza Via", sottolinea la natura esemplare dell’intervento del 1999 in
Kosovo con alla testa gli USA.
Si trattava di “una politica
consapevolmente basata su un mix di valori morali e di interessi per la
sicurezza con gli obiettivi paralleli di arrestare una tragedia umanitaria e di
assicurare credibilità alla NATO come forza efficace per la stabilità della
regione.”
La giustificazione “umanitaria”
suona meglio delle “armi di distruzione di massa” o dei “collegamenti con Al
Qaeda", che non sono mai esistiti. Ma nemmeno è mai esistito il
“genocidio” dal quale la guerra della NATO si supponeva dovesse salvare gli
Albanesi!
Però, mentre il ritrovamento di
armi di distruzione di massa è stato smascherato, si presta fede ancora
completamente all’impostura sulla quale si è basata la guerra del Kosovo. In
effetti si viene distolti dalla vera esistenza di quello che Marshall definisce
come “obiettivo parallelo”, il rafforzamento e il radicamento della NATO. A
parte la distruzione materiale rovinosa inflitta alla regione presa come
bersaglio, la menzogna sul Kosovo ha prodotto danni ancor più irreparabili alle
relazioni fra le popolazioni Serba ed Albanese del Kosovo.
La situazione in quella piccola
provincia della Serbia multietnica era il risultato di una lunga storia
complessa di conflitti, frequentemente incoraggiati e sfruttati da potenze
esterne, in particolare con l’appoggio al nazionalismo Albanese da parte delle
potenze dell’Asse nella Seconda Guerra Mondiale. Una comunità accusava l’altra
di mettere in atto la “pulizia etnica”, fino al “genocidio”. Ma in entrambe le
fazioni vi erano persone ragionevoli che tentavano di elaborare progetti per
conseguire soluzioni di compromesso. Il ruolo costruttivo di esterni avrebbe
dovuto essere quello di calmare le tendenze paranoidi presenti in entrambe le
etnie e di appoggiare le iniziative costruttive. Invece, l’esistenza del
problema del Kosovo, che avrebbe potuto essere facilmente gestito e col tempo
risolto, era desiderata fortemente dalle Grandi Potenze. Come nel passato, le
Grandi Potenze hanno sfruttato e aggravato i conflitti etnici per i loro propri
interessi. In totale ignoranza della storia complessa della regione, politici
pecoroni e i mezzi di informazione hanno fatto da cassa di risonanza alla più
estremista
propaganda nazionalista degli Albanesi. Questo ha fornito il pretesto alla NATO
di dimostrare la sua “credibilità”.
Le Grandi Potenze hanno appoggiato gli Albanesi, riconoscendo che le loro
peggiori accuse contro i Serbi erano vere. Perfino gli Albanesi noti per
conoscere meglio la verità (come Veton Surroi) venivano fatti oggetto di
intimidazioni e ridotti al silenzio dai nazionalisti razzisti manovrati dagli
Stati Uniti.
Il risultato è stato disastroso.
Autorizzati dal loro status ufficiale di uniche vittime dell’iniquità Serba,
gli Albanesi del Kosovo – e in particolar modo i giovani, fatti oggetto di un
decennio di miti nazionalisti – hanno potuto dare libero sfogo al loro odio ben
coltivato sui Serbi.
I nazionalisti Albanesi hanno
proceduto con le armi a scacciare fuori della provincia la popolazione Serba e
gli zingari. I pochi rimasti non osano avventurarsi fuori dei loro ghetti. Gli
Albanesi che desiderano vivere assieme ai Serbi corrono il rischio di venire
massacrati.
Sin da quando la KFOR, forza armata a guida NATO, si è introdotta in Kosovo nel
giugno del 1999, si è scatenata la persecuzione violenta contro i Serbi e i
Rom, regolarmente descritta come “vendetta” –che nella tradizione Albanese
viene considerata il massimo di un comportamento virtuoso. Descrivendo
l’assassinio di donne anziane nelle loro case, o di bambini mentre giocano,
come atti di “vendetta”, questo è un modo per giustificare la violenza, o
addirittura di approvarla.
Il 17 marzo ultimo scorso, in seguito alla falsa accusa che i Serbi erano
responsabili dell’annegamento avvenuto accidentalmente di tre piccoli Albanesi,
bande organizzate di Albanesi, che vedevano la presenza di molti giovinastri,
avevano scorazzato per il Kosovo, distruggendo 35 chiese Serbe
Cristiano-Ortodosse e monasteri, molti di questi dei veri gioielli d’arte
risalenti al quattordicesimo secolo. Per di più, ben oltre un centinaio di
chiese erano state assalite con il fuoco ed esplosivi negli ultimi cinque anni.
L’obiettivo è assolutamente chiaro, di cancellare qualsiasi traccia secolare
della presenza Serba, per meglio rivendicare il loro diritto ad un Kosovo
Albanese etnicamente puro.
L’autocompiacimento della “comunità
internazionale” veniva severamente scosso dalle violenze di marzo. Le unità
KFOR che saltuariamente tentavano di proteggere i siti Serbi dovevano esse
stesse impegnarsi in scontri armati con le bande Albanesi.
Nel corso dello scatenarsi della furia, l’uomo politico Finlandese Harri
Holkeri rassegnava le dimissioni due mesi prima dello scadere del suo mandato
rinnovabile annualmente come capo della Missione ONU in Kosovo (UNMIK), che
supponeva essere l’ente amministratore della provincia. Egli era il quarto ad
uscirsene dall’incarico il più velocemente possibile. Evidentemente sull’orlo
di un esaurimento nervoso, in una conferenza stampa Holkeri si lamentava che
l’UNMIK fosse priva di un suo proprio servizio di intelligence, e che perciò
non aveva ricevuto in anticipo alcun segnale dei pogroms di marzo.
In breve, la massa di funzionari amministrativi internazionali, le forze
militari di occupazione e le agenzie non-governative non avevano l’idea di
quello che stava per capitare nella provincia, cosa che teoricamente doveva
avvenire. Indicando la loro inconsapevolezza, che il solo ruolo lasciato
all’UNMIK era quello di capro espiatorio, Holkeri metteva in guardia dei
“giorni difficili a venire”. Questa risultava una facile predizione!
I giorni difficili a venire
L’11 giugno, l’ex comandante dell’Esercito di Liberazione del Kosovo, Hashim
Thaci, il protetto di Madeleine Albright e del suo portavoce James Rubin,
denunciava l’UNMIK come un “completo fallimento” e dichiarava che, se lui fosse
risultato vincente alle prossime elezioni di
ottobre 2004, avrebbe dato realizzazione alla sua “visione di un
Kosovo, stato indipendente e sovrano”.
Le circostanze suggeriscono che non solo Thaci, ma ogni altro nuovo eletto
possono fare la medesima cosa. La proclamazione dell’indipendenza del Kosovo
alla vigilia delle elezioni del Presidente degli Stati Uniti può risultare di
un astuto tempismo. Con l’Iraq in esplosione, i leaders Americani hanno la
necessità di conservare il mito del “successo” in Kosovo. Gettarsi in un
conflitto aperto con gli Albanesi potrebbe risultare politicamente un disastro!
Allo stesso tempo, molti Europei
hanno visto i pogroms di marzo contro i Serbi come la prova provata che il
Kosovo è ben lontano dal conseguire gli “standards” di diritti umani
democratici e l’armonia etnica che costituivano il mandato che l’UNMIK doveva
assolvere prima di qualsiasi decisione finale sullo status di questa provincia.
Esistono serie ragioni per non accogliere la richiesta Albanese di un “Kosovo
indipendente e sovrano”.
1. Legalità.
Prima di tutto, vi è la questione… minore della legalità: minore, visto che i
poteri della NATO hanno ignorato questa problematica fin dall’inizio. La guerra
stessa era completamente priva di ogni base di legittimità secondo il diritto
internazionale. La guerra ufficialmente si concludeva nel giugno del 1999 con
un accordo di pace che veniva incorporato nella Risoluzione del Consiglio di
Sicurezza dell’ONU 1244, che, fra le altre cose, obbligava le Potenze di
occupazione a:
-- “assicurare condizioni per
una vita normale e pacificata per tutti gli abitanti del Kosovo” – che
logicamente doveva significare “per tutti”, e non solamente per gli
Albanesi;
-- “assicurare la sicurezza e il
ritorno libero per tutti i profughi e le persone sfollate” – probabilmente i
negoziatori USA pensavano che costoro fossero solo gli Albanesi che erano
fuggiti durante i bombardamenti, ma visto che questi era immediatamente
ritornati alle loro case, senza difficoltà, questa clausola in realtà doveva
far riferimento ai Serbi, ai Rom e agli altri non-Albanesi costretti ad
andarsene;
-- stabilire una struttura politica ad interim “ che preservi completamente i
valori dei principi di sovranità e integrità della Repubblica Federale di
Yugoslavia” – che equivale a riconoscere che il Kosovo rimane parte di una
entità politica più larga costituita da Serbia e Montenegro;
-- consentire il ritorno di un convenuto numero di funzionari Yugoslavi e
Serbi, compresi poliziotti per il controllo dei confini e agenti di
dogana;
-- ottenere il mantenimento
della legge e dell’ordine civile e la protezione dei diritti umani.
In realtà, da quando gli Stati
Uniti hanno inserito la loro grande zampa militare attraverso la porta, la
Risoluzione 1244 ha assunto valore a mala pena pari a quello della carta sulla
quale è stata scritta.
Gli Stati Uniti avevano altre
priorità:
-- Prima di tutto, a tempo di record, il Pentagono ha costruito un’enorme base
militare,”Camp Bondsteel”, su migliaia di campi di fattorie espropriate
illegalmente, localizzata nei pressi di strade di comunicazione
trans-Balcaniche, che permettono il trasporto di petrolio dal Medio Oriente e
il Mar Caspio.
-- L’altra ovvia priorità degli
USA era di conservare l’alleanza clandestina del tempo di guerra con
l’”Esercito di Liberazione del Kosovo-KLA”, non solo contro i Serbi, ma anche,
implicitamente, contro qualsiasi alleato Europeo che cercasse di imporre nel
Kosovo post-conquista la propria influenza.
Dopo un “disarmo” fittizio che eliminava poche armi leggere obsolete, la KLA
veniva ribattezzata come “Forza di Protezione del Kosovo” e posta sul libro
paga dell’ONU.
Alcuni dei suoi ufficiali hanno
provveduto ad organizzare azioni armate per allargare “la Grande Albania” sui
confini della Macedonia e su zone nel Sud della Serbia vicino al Kosovo. Queste operazioni sono state lanciate dal
settore Americano, in prossimità di Camp Bondsteel.
-- Rispetto all’organizzazione interna dello stesso Kosovo, la priorità degli
USA è, come al solito, la privatizzazione dell’economia. In pratica, la
privatizzazione ha inizio con lo smantellamento di qualsiasi servizio sociale
governativo esistente, in base alla teoria che senza interferenza del governo e
dello Stato l’iniziativa privata diventerà fiorente.
In questa occasione veramente emblematica, tutto questo non ha fornito proprio
un’utile dimostrazione della teoria. Il Kosovo, già zona di transito per la
maggior quantità di eroina contrabbandata dalla Turchia verso l’Europa
Occidentale, è diventato rapidamente il centro di un nuovo commercio di schiave
del sesso. La mafia Albanese è di molto l’operatore più grosso in questi
traffici. Gli “internazionali”, che erano arrivati per “civilizzare” la
provincia, hanno costituito un mercato locale floridissimo per le prostitute.
Anche se dovessero ritornarsene a casa, la mafia Albanese può contare su una
rete che si è sviluppata in tutta l’Europa Occidentale che consentirebbe di
continuare nell’affare.
2. Economia.
Nella Yugoslavia socialista, il Kosovo era di gran lunga l’area più povera
della Yugoslavia, con il più alto rapporto di disoccupazione cronica. Questo
sussiste ancora. Ma allora, il
Kosovo beneficiava dell’apporto della quantità più ampia di fondi per lo
sviluppo provenienti dal resto della nazione. Sebbene l’opinione che la sua
povertà fosse il risultato di sfruttamento abbia contribuito al sorgere del
nazionalismo Kosovaro Albanese, resta il fatto che il Kosovo sempre in modo
pesante aveva ricevuto sovvenzioni dal resto della Yugoslavia, e il risultato
era che il suo sviluppo era decisamente più elevato rispetto alla confinante
Albania.
Dal momento dell’occupazione della NATO, il Kosovo vive sfruttando altre fonti
di reddito, principalmente i traffici fiorenti di droghe e del sesso. La
“comunità internazionale” ha messo ha disposizione un mosaico rabberciato di
servizi sociali, dalla polizia UNMIK fino ai cooperatori delle Organizzazioni
Non Governative ONG, che vanno a sostituire provvisoriamente i funzionari
espulsi dei settori locali dell’amministrazione Serba. Camp Bondsteel fornisce
il numero più importante di impieghi legali agli Albanesi, e questo potrà
continuare a farlo anche dopo che la richiesta di autisti ed interpreti andrà
ad esaurirsi, quando le ONG si ritireranno. Possono contare sui finanziamenti
dell’Arabia Saudita per la costruzione di moschee. Ma con un reddito pro capite
di circa 30 dollari$ al mese, è difficile vedere dove un “Kosovo indipendente”
possa racimolare la tassazione di base per sostenere finanziariamente un
governo, specialmente poi se molto del reddito reale è di provenienza illecita,
fuori della portata di esattori delle imposte.
Il Kosovo è solo un caso estremo
della “transizione” dal socialismo al libero mercato, così come imposto
all’Europa dell’Est dalla “comunità internazionale”. Lo Stato e i suoi servizi
sono stati eliminati attraverso la forza militare della NATO, mentre altrove il
processo di demolizione è avvenuto in modo più graduale e meno drammatico, come
risultato delle pressioni del Fondo Internazionale Monetario FIM, la Banca
Mondiale e l’Unione Europea. La massa di giovani disoccupati hanno poche
prospettive di guadagnarsi da vivere, se non quella di gettarsi in affari
criminosi. Risulta difficile prevedere quello che potrà impedire ad un “Kosovo
indipendente” di diventare un centro incontrollabile del crimine.
Alla fine della Seconda Guerra
Mondiale, allo scopo di sconfiggere i Fascisti e combattere i Comunisti, i
servizi dell’intelligence USA con una buona dose di cinismo avevano riportato
la Mafia in Sicilia. Il parallelo con il Kosovo non ci porta molto lontano da
questo. Ma, a differenza del Kosovo, la Sicilia è un’isola effettivamente piena
di ricchezze, con un’economia diversificata e numerosi centri urbani raffinati
vecchi di secoli, dove larghi settori di una popolazione altamente educata
hanno coraggiosamente fatto resistenza alla corruzione e alla violenza della
mafia. Questo aspetto della società Siciliana non è sufficientemente apprezzato
in ambienti esterni, dove è molto più “romantico” glorificare i gangsters. Per
confronto, la società Albanese del Kosovo semplicemente non possiede tali
risorse materiali e culturali per resistere al potere delle nuove mafie che,
mentre si alimentano di certe tradizioni tribali, comunque risultano tutte
prodotto del globalismo neoliberista.
3. Diritti umani
La protezione dei “diritti
umani” è stata il pretesto per la guerra del 1999. In termini di relazioni
umane quotidiane, la situazione odierna è ben peggiore di quella precedente.
Questo non viene opportunamente messo in evidenza per due ragioni. La prima,
dal momento che Milosevic è sotto accusa in carcere, l’interesse dei media
della “comunità internazionale”rispetto al Kosovo si è decisamente
volatilizzato. La seconda, le vittime delle persecuzioni e delle vessazioni, i
bambini i cui scuola-bus sono stati presi a sassate, i vecchi che sono stati
bastonati e le cui case sono state date alle fiamme, i contadini che non osano
più andare a coltivare i loro campi, le centinaia di migliaia di profughi a
causa della “pulizia etnica”…sono Serbi! O, a volte, Zingari.
I media occidentali hanno immediatamente identificato “i Serbi” come i nemici
della “società multi-etnica” e gli esecutori materiali della “pulizia etnica”.
Il risultato curioso sembra essere che l’assenza dei Serbi viene intesa come la
migliore garanzia di una società…multietnica. Questa, in ogni caso, è la logica
del comportamento tenuto dalla comunità internazionale nei riguardi della valle
dell’Ibar, la regione del Kosovo a nord di Mitrovica.
Questa regione, che forma una sorta di punta che si immerge nel centro della
Serbia, è la più vasta parte rimanente del Kosovo dove i Serbi conservano una
maggioranza tradizionale sufficiente a difendersi dalle intimidazioni Albanesi.
Quando appartenenti a milizie Albanesi provenienti dalla regione purificata
etnicamente della valle sud dell’Ibar hanno tentato di attraversare il fiume,
ogni volta che è accaduto, sono stati bloccati dalle guardie Serbe. In questa
situazione, i portavoce della “comunità internazionale” quasi invariabilmente
hanno assunto la linea che erano…gli estremisti Serbi ad opporsi ad un Kosovo
“multietnico”.
Il fatto viene deliberatamente trascurato che, mentre un certo numero di
Albanesi vivono tranquillamente a nord di Mitrovica sotto controllo Serbo,
tutti i Serbi e i Rom sono stati cacciati via dalla regione a sud di Mitrovica,
e che se agli attivisti Albanesi fosse garantito il libero accesso al nord, il
risultato probabile sarebbe quello di una ulteriore pulizia etnica di quello
che rimane della popolazione Serba.
Per qualcuno della “comunità
internazionale”, questo potrebbe essere la soluzione ideale.Una qualvolta i
non-Albanesi fossero stati cacciati via, gli umanitari di professione avrebbero
la possibilità di dichiarare il Kosovo “multietnico” e non resterà nessuno a
contestare questa trionfale asserzione!
Ora la preoccupazione Occidentale prevalente è di uscire dal disordine del
Kosovo in una maniera che sia permesso ancora di continuare a celebrare la guerra
in Kosovo come un grande successo umanitario. Dopo aver ridotto i Balcani in un
mattatoio, i guerrieri per i diritti umani allora possono andare verso altre
vittorie. La sola cosa che li può fermare, forse può essere il riconoscimento,
comunque tardivo, della verità.
Diane Johnstone è l’autrice
di “Fools' Crusade: Yugoslavia, Nato, and Western Delusions – La Crociata
degli Inganni: Yugoslavia, Nato e Allucinazioni Occidentali” pubblicato
da Monthly Review Press.