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- popoli resistenti - stati uniti - 10-07-08 - n. 236
I Pellerossa
La muta discesa nel gorgo concentrazionario statunitense*
di Leonardo Pegoraro (GC Urbino)
Sono venuto al mondo con la pelle color bronzo. Molti miei amici sono nati con la pelle gialla, nera o bianca. Ci sono fiori dai colori diversi ed ognuno di essi é bello. Io spero che i miei figli vivano in un mondo in cui tutti gli uomini, di ogni colore, vadano d’accordo e lavorino insieme, senza che la maggioranza cerchi di uniformare gli altri al proprio volere.
Tatanga Mani Assiniboine (Stoney)
Quanto del mondo concentrazionario è morto e non tornerà più, come la schiavitù e il codice dei duelli?
(Primo Levi)
1. Un macabro curriculum ineguagliato.
Nel 1898 Charles F. Cochran, deputato del Missouri, celebrò l’annessione delle Hawaii come “semplicemente un altro passo nell’avanzata della libertà e della civiltà” e “nella conquista del mondo da parte delle razze ariane”. Fra gli applausi del Congresso continuò sentenziando: il “regno degli ariani, per mezzo della giustizia, della ragione e dell’instaurazione della libertà, penetrerà in ogni angolo abitabile del pianeta”[1] (corsivo mio).
E mentre persino un conservatore xenofobo quale era il giornalista americano E. L. Godkin si scagliava giustamente contro l’ipocrisia di chi si preoccupava del “salvataggio” degli stranieri all’estero e fingeva di non vedere il linciaggio dei neri che si consumava in patria[2], Henry Cabot Lodge - un membro del Congresso, che pure nel 1890 aveva cercato di tutelare il diritto di voto dei neri - dichiarava, purtroppo orgogliosamente e senza alcun accento critico, che gli USA potevano vantare “un curriculum di conquista, colonizzazione ed espansione territoriale mai eguagliato da nessun altro popolo nel XIX secolo”[3]. A pagare le conseguenze di questa furia omicida furono, anzitutto, gli indiani d’America. Aggiunge a tal proposito A. Stephanson: “È ben noto come quelle terre siano state espropriate per mezzo di inganni, intimidazioni, deportazioni, campi di concentramento e omicidi. Si tratta di un istruttivo esempio storico di pulizia etnica”[4] (corsivo mio).
Fu così il mondo liberale a rendersi il protagonista di orrori tra i più infami della storia dell’umanità, quali l’ “olocausto” dei neri e, per l’appunto, l’ “olocausto” dei pellerossa. Sarà quest’ultimo, sia pure in estrema sintesi, l’oggetto di questo mio contributo.
È inoltre qui doveroso ricordare, en passant, che gli USA godono di un raccapricciante primato: sono lo Stato che più di ogni altro si macchia di crimini atroci contro l’umanità, detenendo, fra gli altri, il record degli infanticidi di massa! Difatti, solo nel 2008, saranno 850.000, di cui più del 50% bambini, gli innocenti morti nei territori occupati dagli USA o dai suoi delegati – a cominciare da Israele[5].
Quindi, non ha poi tanto senso gridare allo scandalo se c’è chi, come Naomi Wolf, afferma che negli Stati Uniti è in atto una svolta fascista[6]. Insomma: anche oggi, per la felicità dei vecchi e dei nuovi Lodge, gli USA godono di un macabro curriculum ineguagliato.
2. Il più grande genocidio della storia.
Nonostante alcuni storici dimostrino che si possa parlare addirittura di 100 milioni risulta comunque difficile stimare con esattezza a quale numero ammontino le vittime dell’ “olocausto americano”[7] - iniziato, convenzionalmente, nel 1492 con la cosiddetta scoperta delle Americhe. Nel giro di qualche secolo esso assicurò, per mano di inglesi, spagnoli, portoghesi ecc. la decimazione di milioni di indigeni del nord America, del Messico, dell’impero andino degli Inca , del Brasile ecc. Ma come spesso avviene quando si devono accertare le reali dimensioni di un genocidio, il dibattito sulle cifre è ancora in corso.
Ad ogni buon conto, ciò che mi preme sottolineare in questa sede è che, secondo l’eminente opinione di D. Standard e di T. Todorov[8], quello dei pellerossa è stato il più grande genocidio di tutta la storia del genere umano.
Ricostruiremo qui, a partire dai primi decenni dell’ ‘800 fino ad arrivare ai giorni nostri, alcune delle pagine più emblematiche di questa tragedia, che continua tutt’oggi a mietere vittime fra i pochi sopravvissuti, costretti ancora a vivere nelle riserve sotto una sorta di regime di apartheid. Non c’è dubbio: ciò costituisce - assieme ad esempio agli orrori di Abu Graib e Guantanamo - parte dell’odierno universo concentrazionario statunitense.
3. Emerich de Vattel, Benjamin Franklin e Alexis de Toqueville. Una singolare idea di proprietà.
Nel XVIII secolo il giurista Emerich de Vattel aveva indicato nell’ “‘obbligo di coltivare la terra’” [9] la risposta ad un grattacapo non da poco che sembrava tormentare le coscienze dei coloni americani: come giustificare sul piano teorico l’occupazione delle terre dei pellerossa senza infrangere quel diritto di proprietà tanto osannato dallo stesso liberalismo? De Vattel, muovendosi sulla stessa lunghezza d’onda di Locke, sosteneva cioè che, in quanto nomadi, i nativi americani non godessero di alcun diritto di proprietà sulle terre da loro abitate. Dopo aver verificato i funesti effetti dell’alcol sui pellerossa, ben si comprendono allora i termini adoperati da Benjamin Franklin per lodare il “rum in quanto ‘strumento deputato’ a realizzare ‘il disegno della provvidenza di estirpare questi selvaggi per fare spazio ai coltivatori della terra’”[10] (corsivo mio). Allo stesso modo Alexis de Toqueville, in qualche modo uno dei padri del liberalismo, affermava che “solo con l’agricoltura l’uomo si appropria del suolo e i primi abitatori dell’America del Nord vivevano dei prodotti della caccia”[11]. Ma l’accecante delirio - espressione della cosiddetta falsa coscienza dell’ideologia borghese - di tale tesi non teneva neppure in considerazione che non era affatto vero che le tribù indiane fossero (tutte) nomadi. Dunque, anche volendo prendere per buona questa (davvero singolare) definizione del diritto di proprietà, proprio non sussistevano le condizioni materiali per attribuire ai pellerossa la qualifica di “non proprietari”. Il caso dei Cherokee è a tal proposito esemplare.
4. La deportazione dei Cherokee attraverso la “pista delle lacrime”.
Nonostante Toqueville propugnasse, come abbiamo appena visto, che i pellerossa, a suo dire nomadi selvaggi incapaci di incivilirsi, non erano proprietari delle terre su cui vivevano in quanto non le coltivavano, i Cherokee, una tribù della Georgia, quanto a civiltà e conoscenze colturali davano di certo del filo da torcere ai propri “civili” invasori. Tant’è che fin dal 1791 gli stessi coloni bianchi stipularono tutta una serie di trattati che riconoscevano la loro nazione e, addirittura, le loro usanze. Ma quando, nel 1828, furono scoperti dei giacimenti di oro proprio all’interno dei confini delle loro terre i coloni non si fecero alcuno scrupolo di strappare i trattati. E il disperato tentativo dei Cherokee di denunciare la violazione degli accordi appellandosi alla corte suprema si dimostrò purtroppo vano. Nonostante, infatti, questa avesse dichiarato incostituzionale la decisione della Georgia di legiferare su una materia su cui solo il governo federale aveva giurisdizione, i coloni in questione, con l’incoraggiamento del presidente A. Jackson e alla faccia della sentenza della corte, optarono per la deportazione. Essa, ribattezzata eufemisticamente “‘trasferimento degli indiani’ (Indian Removal)”[12], consistette in una marcia forzata oltre il Missisipi di più di 1600 km. Un quarto dei cherokee morì lungo il tragitto. Fu da quel giorno che la strada da loro coattivamente percorsa prese il nome di “pista delle lacrime”[13]. Dopodiché il presidente Van Buren, nel dicembre del 1838, affermerà al Congresso:
“è davvero un piacere poter informare il Congresso del completamento di trasferimento della nazione degli indiani cherokee nelle sue nuove case a ovest del Missisipi. Le misure autorizzate dal Congresso nella sua passata sessione hanno avuto gli effetti più felici.”[14]
5 .Il massacro del Sand Creek.
Il quotidiano americano “Rocky Mountain News”, nel marzo del 1863, pubblicò un editoriale del suo direttore che, attaccando gli indiani, così sentenziava: “Sono una razza dissoluta, vagabonda, brutale ed ingrata e dovrebbe essere cancellata dalla faccia della terra”. Fu proprio nell’anno successivo che si consumò uno dei più raccapriccianti massacri della storia dei pellerossa, quello del Sand Creek (Colorado). Un orrore che, già fonte di ispirazione de “La scotennatrice”, un romanzo di Emilio Sàlgari, divenne (in Italia) noto grazie anche a “Fiume Sand Creek”: la toccante canzone del cantautore Fabrizio De Andrè. L’episodio in questione si svolse quindi nel 1864, quando
“un corpo di spedizione agli ordini del colonnello John M. Chivington assalì una banda di qualche centinaio di indiani, uomini, donne e bambini, e li sterminò, scotennando i guerrieri, sventrando le donne incinte, calpestando a morte i bambini”[15] (corsivo mio).
Cosa rimase dopo sarà una testimonianza a raccontarcelo:
“A quasi cinque chilometri di distanza dal luogo della strage trovammo il corpo di una donna completamente ricoperto da uno strato di neve e da lì in poi ne trovammo diversi, sparpagliati dappertutto, come se fossero stati inesorabilmente scovati e uccisi mentre fuggivano per mettere in salvo la vita […]. Quando raggiungemmo il luogo dove sorgeva l'accampamento indiano, tra i frammenti delle tende bruciate e altri oggetti personali vedemmo i corpi congelati, distesi uno vicino all'altro o ammucchiati. Le donne ed i bambini costituivano più dei due terzi degli indiani morti”[16].
È bene qui ricordare che il presidente liberale progressista T. Roosevelt (insignito del premio Nobel per la pace!) avrebbe in seguito definito questa carneficina, coerentemente con la sua massima “l’unico indiano buono è l’indiano morto”, “un’impresa virtuosa e benefica”[17].
6. Il massacro di Wounded Knee del 1890 e del 1973.
Dopo innumerevoli massacri e deportazioni che fine hanno fatto i pellerossa? In che condizioni vivono oggi? Tra i superstiti possiamo qui accennare ai Sioux. Essi per secoli, assieme agli alleati Arapho e Cheyennes, furono soggetti a massacri, a cui seguivano trattati, poi violati, come abbiamo visto nel caso dei Cherokee, dai loro stessi artefici ogni volta che questi scoprivano nella riserva un nuovo giacimento d’oro, innescando così un circolo vizioso: una protesta indiana, un massacro e di nuovo un trattato tra le due parti. Ciò si verificò ancora nel 1973, quando, nella località di Wounded Knee, dove si era già consumato il noto massacro del 1890, i Sioux denunciarono l’ennesima infrazione “dell’ultimo trattato firmato dai loro rappresentanti e dal governo statunitense”. “Denunciavano la corruzione, l’abbandono, le condizioni di vita infami in cui li si costringeva, le violenze, gli assassini, la disoccupazione”. Il governo inviò le forze dell’ordine che assediarono l’accampamento per due mesi e repressero nel sangue la protesta dei pellerossa nonostante questi chiedessero, come sempre inascoltati, il “cessate il fuoco”[18].
7. I Lakota si dichiarano indipendenti.
I Lakota, la tribù indiana che sotto la guida di leggendari capi indiani quali Cavallo Pazzo e Toro Seduto riuscì a battere i cavalleggeri guidati dal colonnello George A. Custer nella celebre battaglia di Little Big Horn, nel 1876, dopo secoli di soprusi, hanno recentemente dichiarato tramite il celebre attivista Russell Means: “Non siamo più cittadini statunitensi e tutti coloro che vivono nell'area dei cinque Stati del nostro territorio sono liberi di unirsi a noi”. “Abbiamo 33 trattati con gli Stati Uniti che non sono stati rispettati” attacca Phyllis Young, tra gli organizzatori della prima conferenza sugli indigeni, a Ginevra nel 1977.
Ben si comprende la recente decisione dei Lakota, uno dei sette popoli che compongono la nazione dei Sioux, di dichiararsi indipendenti dagli USA, se consideriamo che
“per più di cent’anni, il governo statunitense ha fatto di tutto perché [essi] abbandonassero la loro lingua e cultura. Fu proibita la loro lingua, le loro manifestazioni culturali, le loro cerimonie religiose.”[19].
Di più:
“il 97 per cento di loro vive sotto la soglia di povertà e con un’attesa di vita di appena 44 anni, più bassa perfino di quella dell’Afghanistan; la disoccupazione è all’85 per cento e l’incidenza della tubercolosi 800 volte più alta della media statunitense. Il tasso di suicidi tra i giovani del 150 per cento più alto della media statunitense ed è probabilmente il segnale più evidente (assieme all’alcolismo cronico e diffusissimo) del disfacimento sociale del popolo Lakota”[20].
Inoltre è bene aggiungere che le riserve indiane, luoghi aridi e difficilmente coltivabili, non sono indicate nelle mappe statunitensi come tali ma come siti militari. Divenendo perciò luoghi di sperimentazione bellica e/o di smaltimento dei rifiuti tossici da parte delle industrie limitrofe. È così che si spiega l’elevato inquinamento delle falde acquifere delle riserve; il risultato è che oggi i pellerossa soffrono anche, come se non bastasse, di un elevatissimo tasso di tumori.
Non possiamo che augurarci che la dichiarazione di indipendenza dei Lakota non resti lettera morta o un mero atto simbolico e che essi riescano finalmente ad ottenere il diritto all’autodeterminazione del proprio popolo, innescando magari un circolo virtuoso capace di coinvolgere anche tutte le altre tribù indiane superstiti; cosa che auguriamo anche ad ogni altro popolo oppresso dall’imperialismo israelo-statunitense, a partire da quelli palestinese, irakeno, afgano, haitiano e somalo.
Tutte le forze progressiste e democratiche del mondo, se tali vogliono essere, non possono privare del proprio sostegno questa causa di giustizia e libertà.
Bibliografia:
Dyer, T.G, Theodore Roosevelt and the idea of Race, Louisiana State University Press, 1992.
Jones, M. A., Storia degli Stati Uniti D’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri., Bompiani, 2007.
Mangini, E., “Non siamo più negli USA”. La protesta dei Lakota., su Carta, 20 Dicembre 2007.
Losurdo, D., Il revisionismo storico. Problemi e miti., Laterza, Bari, 1996.
Pavese, C., Poesie edite e inedite, Einaudi, Torino, 1962.
Sagaseta, K. C., I Sioux [popolo Lakota] si sono dichiarati indipendenti dagli Stati Uniti, da rebelion.org, traduzione dallo spagnolo per resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare, 04/01/2008.
Stannard, D., Olocausto americano. La conquista del nuovo mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 2001.
Stephanson, A., Destino Manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del bene. Feltrinelli Editore, Milano, 2004.
Wolf, N., The end of America: Letter of Warning to a Young Patriot, Chelsea Green Publishing, 2007.
Zinn, H., Storia del popolo americano, il Saggiatore, Milano, 2007.
[1] * Il sottotitolo è una mia libera estrapolazione dal verso: “Scenderemo nel gorgo muti”; tratto da Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, di Cesare Pavese.
[1] Cochran, cit. in A. Stephanson, 2004, p. 121.
[2] Cfr. Stephanson, 2004, p. 137.
[3] Lodge, cit. in Stephanson, 2004, p. 138.
[4] Stephanson, 2004, p. 43.
[5] Cfr.i dati elaborati da Poyla, 2008.
[7] Così lo definisce Stannard già nel titolo del suo libro (vedi la Bibliografia).
[8] Cfr. Losurdo, 1996, p. 251.
[9] De Vattel, cit. in Stephanson, 2004, p. 44.
[10] Franklin, cit. in Stephanson, 2004, p. 27.
[11] Toqueville, cit. in Losurdo, 1996, p. 213.
[13] Cfr. Jones, 2007, p. 129.
[14] Buren, cit. In Zinn, 2007, p. 106.
[15] Jones, 2007, p. 254.
[16] Cit. in Stannard, 2001, p. 209.
[17] Cit. in Dyer, 1992, p. 79.
[18] Cfr. Sagaseta, 2008.