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Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova
Mohamed Hassan: «Le cause della rivoluzione tunisina vanno ben oltre Ben Ali e la sua fazione»
di Grégoire Lalieu, Michel Collon
1 febbraio 2011
I Tunisini hanno fatto cadere il dittatore Ben Ali. Oggi continuano la lotta contro i suoi uomini alla testa del governo di transizione. In questo nuovo capitolo della nostra serie “Capire il mondo musulmano”, Mohamed Hassan ci spiega in questa intervista cosa è in gioco nella rivoluzione tunisina e le sue cause profonde: come il nazionalismo liberista tanto magnificato da Bourguiba abbia sottomesso la Tunisia agli interessi dell’Occidente, affondando il popolo nella precarietà; come uno Stato repressivo si sia imposto per mantenere questo sistema; perché le dittature del mondo arabo siano destinate ad essere abbattute; e come l’islamismo sia divenuto il preservativo dell’imperialismo.
Nel dicembre 2010, rivolte popolari hanno scosso la Tunisia. Un mese più tardi, il presidente Ben Ali ha abbandonato il paese, dopo ventitrè anni di potere. Quali sono le cause di questa rivoluzione? E perché questo movimento popolare è arrivato a detronizzare il dittatore, quando altri tentativi avevano fallito?
Perché avvenga una rivoluzione, bisogna che la popolazione rifiuti di vivere nelle condizioni a cui è sottoposta, e che la classe dirigente al potere non sia più in grado di governare come in precedenza.
Il 17 dicembre 2010, Mohamed Bouazizi, un giovane venditore di frutta e verdura, si è immolato per disperazione dopo che alcuni poliziotti gli avevano confiscato la merce e il carretto di vendita e le autorità locali gli avevano impedito di lavorare. Le condizioni per lo scoppio di una rivoluzione in Tunisia si erano da tempo coagulate, e il suicidio con il fuoco di Bouazizi è stato l’elemento scatenante.
Sicuramente, i Tunisini non volevano vivere più come prima: non accettavano più la corruzione, la repressione poliziesca, la mancanza delle libertà, la disoccupazione, ecc. Inoltre, la classe dirigente non poteva più governare come prima. La corruzione sotto Ben Ali aveva assunto dimensioni fenomenali, mentre la maggior parte della popolazione doveva affrontare la precarietà. Per mantenere questa situazione, la repressione poliziesca doveva farsi più forte, ma aveva raggiunto il limite sopportabile. L’élite al potere era completamente distaccata dal popolo, per cui non esisteva alcun interlocutore. Di conseguenza, nel momento dell’esplosione delle rivolte popolari, la classe dirigente non aveva altra scelta che reprimerle nella violenza. Ma, a fronte della determinazione del popolo, la repressione si dimostrava assolutamente non adeguata. Qui sta una delle chiavi del successo della rivoluzione popolare tunisina: la rivoluzione è giunta a toccare tutti i segmenti della società, compresi alcuni settori dell’esercito e della polizia che hanno simpatizzato con i manifestanti. Dunque, l’apparato repressivo non poteva più funzionare come aveva fatto fino a quel momento. Se si verifica un moto rivoluzionario, che però non sia in grado di combinare i differenti segmenti della società, questo movimento non potrà sfociare in una effettiva rivoluzione.
Comunque, dopo la fuga di Ben Ali, continuano le proteste. Dunque, la situazione che i Tunisini rifiutano non è il frutto di un solo uomo?
I manifesti con “Ben Ali dégage”, “Ben Ali sgombra! vattene!”, sono stati sostituiti da manifesti con “RCDdégage” [RCD; Rassemblement Constitutionnel Démocratique]. I Tunisini stanno attaccando il partito politico del presidente, in quanto temono di vedere uno dei suoi uomini prendere il potere. Ma in realtà, le cause profonde che hanno condotto i Tunisini alla rivolta vanno ben oltre Ben Ali e il suo partito RCD. Non basta cacciar via il presidente perché il popolo conquisti la sua libertà e migliori le condizioni della sua esistenza.
La corruzione, la disoccupazione, le disuguaglianze sociali…Sono questi gli effetti della dominazione imperialista dell’Occidente sulla Tunisia. Visto che la Tunisia, dopo la sua indipendenza, è divenuta un progetto degli Stati Uniti!
Cosa intende lei per imperialismo?
L’imperialismo è il processo per cui le potenze capitaliste esercitano il dominio politico ed economico su paesi stranieri. Le multinazionali occidentali saccheggiano le risorse dei paesi dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia. Le multinazionali vi trovano mercati per i loro capitali e ne sfruttano a buon mercato la manodopera. Io affermo che le multinazionali saccheggiano perché loro non acquistano le risorse al loro giusto valore e le popolazioni locali non ricevono profitto da queste ricchezze. E questo saccheggio non sarebbe possibile se nei paesi sfruttati non esistessero dirigenti pronti a difendere gli interessi delle multinazionali. Questi dirigenti si arricchiscono al volo. Costoro costituiscono ciò che viene definito “borghesia compradora”. Non possiedono alcuna visione di prospettive politiche per il loro paese, non producono ricchezza e non sviluppano una reale economia. Invece, costoro si arricchiscono personalmente mercanteggiando le risorse del loro paese con le multinazionali. Evidentemente, in tutto questo, ad essere la grande vittima è il popolo!
Per contro, se voi siete dei nazionalisti anti-imperialisti, la vostra intenzione sarà quella di sviluppare il vostro paese. Verranno nazionalizzati quei settori chiave della vostra economia, piuttosto di lasciarli in gestione a società straniere. Quindi, nel paese si svilupperà un’economia nazionale e al paese verrà consentito di crescere su fondamenta di indipendenza. Questo è ciò che definisco una rivoluzione nazionale democratica: nazionale, perché indipendente dalle potenze imperialiste, democratica, perché contro i feudatari e gli elementi reazionari del paese.
Per tutto questo, Bourguiba, il primo presidente della Tunisia, veniva considerato come un socialista. E sotto il suo regime, lo Stato giocava un ruolo molto importante nell’economia del paese.
Il partito politico di Bourguiba, di socialista aveva solo il nome! Se lo Stato giocava un ruolo importante, questo avveniva solo a vantaggio di una élite. Si trattava di quello che viene definito “capitalismo di Stato”. Di più, Bourguiba ha sistematicamente eliminato tutti gli elementi progressisti e anti-imperialisti presenti in seno al suo partito. In un modo tale che questo partito è diventato il partito di un solo uomo, completamente sottomesso all’imperialismo degli Stati Uniti.
[foto] Habib Bourguiba, grande protagonista della lotta per l’indipendenza, è stato presidente della Tunisia dal 1957 al 1987
Perché la Tunisia rivestiva importanza per gli Stati Uniti?
Per ben comprendere l’importanza di questo paese nella strategia degli Stati Uniti, dobbiamo analizzare il contesto politico del mondo arabo negli anni ’50 e ’60. Nel 1952, in Egitto alcuni ufficiali rovesciavano la monarchia del re Farouk e proclamavano la repubblica. Con Nasser alla sua guida, l’Egitto diviene la base del nazionalismo arabo con idee rivoluzionarie ispirate al socialismo. Come attestato dalla nazionalizzazione del canale di Suez, l’arrivo al potere di Nasser rappresenta un colpo duro per l’Occidente, in quanto la politica del presidente egiziano è in contrasto totale con gli obiettivi egemonici delle potenze occidentali nel Vicino e nel Medio Oriente.
Peggio ancora: le idee anti-imperialiste di Nasser fanno scuola nella regione. Ad esempio, nello Yemen nel 1962 una rivoluzione divide il paese, ed il Sud di questo paese diviene un bastione del movimento rivoluzionario arabo. In quel anno medesimo, l’indipendenza d’Algeria invia un segnale forte all’Africa e al Terzo Mondo, mettendo in allerta le potenze imperialiste. Ugualmente bisogna sottolineare il colpo di Stato in Libia da parte di Kadhafi nel 1969. Questo colonnello assume il potere e nazionalizza importanti settori dell’economia, a grave scapito dell’Occidente. Dieci anni più tardi, in Iran la rivoluzione islamica detronizza lo Scià, uno dei pilastri più importanti della strategia degli Stati Uniti in Medio Oriente.
In breve, in questo periodo, un movimento anti-imperialista molto forte sfida gli interessi strategici degli Stati Uniti nel mondo arabo. Per fortuna per Washington, non tutti i paesi della regione seguono la via di Nasser. Questo è il caso della Tunisia. Nel 1957, un anno dopo l’indipendenza tunisina, Bourguiba è uno dei principali dirigenti arabi a scrivere nella prestigiosa rivista statunitense, Foreign Affairs. Il titolo dell’articolo? Il nazionalismo, miglior antidoto del comunismo. Per gli Stati Uniti, che volevano contrastare l’influenza di Nasser, questa era musica celestiale! Nel suo articolo Bourguiba scrive: “Per quel che ci riguarda, la Tunisia ha scelto senza equivoci di compiere il suo cammino nel mondo libero dell’Occidente”. Siamo in piena Guerra Fredda. I Sovietici sostengono Nasser la cui influenza si sta allargando nella regione. E gli Stati Uniti hanno bisogno di agenti filo-imperialisti come Bourguiba per non perdere il controllo strategico sul mondo arabo.
[foto] Nasser annuncia la nazionalizzazione del Canale di Suez nel 1956
È possibile essere nello stesso tempo nazionalisti e filo-imperialisti?
Bourguiba era un nazionalista liberista con idee anti-comuniste che lo hanno portato a ricongiungersi con il campo imperialista dell’Occidente. Perciò, io considero Bourguiba come il George Padmor arabo. Padmor era un leader panafricano originario dei Carabi. Nel 1956, ha scritto un libro dal titolo Panafricanisme ou communisme : le combat à venir en Afrique. Assolutamente come Bourguiba, Padmor nutriva delle idee anti-comuniste e nello stesso tempo si dichiarava nazionalista, la sua visione politica era largamente asservita agli interessi delle potenze imperialiste. Il nazionalismo in effetti serviva da copertura, la loro politica era ben lontana dall’essere indipendente. Padmor ha esercitato una grande influenza sul primo presidente del Ghana, Kwame Nkrumah, uno degli istigatori dell’Unione Africana. Le sue idee filo-imperialiste hanno potuto diffondersi su tutto il continente con i risultati che oggi stanno sotto i nostri occhi: in Africa si festeggiano un po’ dappertutto i cinquantenari di indipendenza, ma molti Africani si rendono conto che non sono mai divenuti indipendenti. In seguito, il presidente Nkrumah si dichiarava pentito di avere seguito i consigli di Padmor.
In Tunisia è avvenuto lo stesso, la sottomissione agli interessi imperialisti si è ben presto fatta sentire e ci si è resi consapevoli che il nazionalismo magnificato da Bourguiba non era che di facciata. Ad esempio, negli anni ’70, il presidente aveva fatto passare tutta una serie di misure ritenute idonee per attirare gli investitori esteri: esonero fiscale da imposte sui profitti delle società per la durata di dieci anni, esenzione per venti anni da ogni forma di tassazione, esenzione dall’imposta sui redditi da valori immobiliari, ecc. Quindi, la Tunisia diveniva un vasto laboratorio delle multinazionali occidentali, queste ultime poi incameravano e portavano all’estero i profitti realizzati.
Comunque, la Tunisia sotto Bourguiba non ha conosciuto discreti apprezzabili progressi?
Certamente, ci sono stati progressi positivi: nel campo dell’istruzione, della condizione femminile, ecc. Anzitutto, perché la Tunisia contava all’interno della sua élite elementi attivi progressisti, che però ben presto sono stati messi all’angolo. E poi, perché la Tunisia doveva apparire nelle sue vesti migliori. In definitiva, questo paese giocava un importantissimo ruolo nella strategia degli Stati Uniti per ostacolare l’influenza del comunismo nel mondo arabo.
Ma cosa esisteva dall’altra parte? Dei movimenti rivoluzionari progressisti che avevano fatto crollare monarchie arretrate e che beneficiavano del sostegno popolare. Non era possibile contrastare questi movimenti sostenendo sistemi feudali. L’Arabia Saudita ha potuto resistere a tutto ciò grazie alle sue possibilità di utilizzare il denaro dal suo petrolio. Ma la Tunisia, non potendo contare su risorse di tal fatta, doveva fornire una qualche immagine progressista. Nella lotta contro il comunismo, la Tunisia era destinata a rappresentare la bella affermazione di un paese del Terzo Mondo, che aveva fatto la scelta del nazionalismo liberista.
Ma il rovescio della medaglia era meno lusinghiero. Come ho già detto, Bourguiba ha sistematicamente eliminato gli elementi progressisti che non lo seguivano nel suo percorso. Gli elementi anti-imperialisti che volevano una Tunisia indipendente tanto sul piano economico che sul piano politico, coloro che volevano affermare le loro precise posizioni nel Terzo Mondo e sul conflitto israelo-palestinese, tutti costoro sono stati combattuti. In buona sostanza, la Tunisia è stata utilizzata dalle potenze imperialiste come un laboratorio. E quella che doveva rappresentare l’affermazione del nazionalismo liberista si è trasformata in una dittatura.
Quando Ben Ali è successo a Bourguiba nel 1987, ha proseguito sullo stesso cammino?
Completamente. È possibile anche affermare che la sottomissione agli interessi occidentali si è accentuata. Ben Ali era un puro agente dell’imperialismo statunitense. Nel 1980, quando ricopriva la carica di ambasciatore in Polonia, era lui a costituire il punto di collegamento fra la CIA e Lech Walesa, il dirigente sindacalista che si batteva contro l’Unione Sovietica.
Nel 1987, quando Ben Ali assunse la presidenza della Tunisia, il paese era fortemente indebitato a causa della crisi capitalista del 1973. In più, in quel periodo, le teorie economiche di Milton Friedman e dei suoi Chicago Boys andavano per la maggiore. Questi economisti ultraliberisti pensavano che il mercato era un’entità in grado di autoregolarsi e soprattutto che lo Stato non doveva immischiarsi in problemi economici. L’élite tecnocratica tunisina proveniva in gran parte da scuole statunitensi ed era molto influenzata dalle idee di Friedman. Allora, Ben Ali abbandona il capitalismo di Stato in vigore dall’inizio dell’era Bourguiba. Sotto la supervisione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, egli mette mano ad un programma di privatizzazioni molto più massiccio di quello che il suo predecessore aveva già annunciato negli anni ’70.
Quali sono stati gli effetti di questa nuova politica economica?
Prima di tutto, la privatizzazione dell’economia tunisina ha permesso a Ben Ali e alla famiglia di sua moglie, i Trabelsi, di arricchirsi personalmente. La corruzione raggiungeva un livello molto elevato e la Tunisia diveniva un paese totalmente soggetto all’imperialismo, diretto da una “borghesia compradora”.
Chiaramente, Ben Ali e il suo clan non disponevano di materie prime da svendere alle multinazionali occidentali. Ma hanno approfittato del sistema dell’istruzione istituito da Bourguiba per sviluppare un’economia di servizi. In effetti, la manodopera tunisina è costituita da soggetti molto istruiti, e però a buon mercato. Per questo attira gli investitori stranieri.
Ugualmente, il turismo si è fortemente sviluppato al punto da diventare il pilastro dell’economia tunisina. Qui vediamo la mancanza di visione politica delle élite. In effetti, non esiste paese che possa sviluppare la sua economia sulla base del solo turismo, se non ha sviluppato nello stesso tempo una base economica nazionale. L’industria del turismo consuma enormemente ma rende molto poco al popolo tunisino. Pensate solo a questo: mentre i turisti occidentali consumano ettolitri d’acqua per godersela nelle piscine, nelle vasche jacuzzi per idromassaggi o per innaffiare i campi da golf, i poveri contadini del sud del paese devono affrontare l’aridità dei terreni.
Ma non sono solo i contadini che soffrono per questo tipo di politica. Globalmente, le condizioni sociali del popolo tunisino si sono degradate, mentre l’entourage del presidente ha ammassato una colossale fortuna. Tutti sapevano che il regime era corrotto. Allora, per mantenere in piedi questo sistema, il regime era costretto ad impedire qualsiasi contestazione. Sotto Ben Ali, la repressione è divenuta ancora più brutale: non erano più autorizzati la semplice critica o perfino il desiderio di modernità e di aperture. Una tale situazione non poteva portare che alla rivolta popolare. Per di più, volendo monopolizzare per il suo clan le ricchezze del paese, nel contempo Ben Ali si è attirato anche i fulmini di una parte della borghesia tradizionale della Tunisia.
Lei afferma che la repressione politica era molto forte. Allora, esistono attualmente delle forze di opposizione in grado di guidare la rivoluzione del popolo, ora che Ben Ali è caduto?
Autentici partiti di opposizione erano fuori legge sotto Ben Ali. Comunque, alcuni hanno continuato ad esistere in clandestinità. Ad esempio, il primigenio Partito Comunista di Tunisia non poteva operare alla luce del sole ed organizzarsi come un qualsiasi partito politico in democrazia. Ma ha continuato a funzionare in segreto attraverso associazioni della società civile (professori, coltivatori diretti, medici, prigionieri …). Anche il PTPD (Partito del Lavoro Patriottico Democratico, un partito di sinistra radicale) ha potuto costruire una sua base sociale e ha tratto una solida esperienza da questo periodo. Nel mondo arabo, questo è eccezionale! Io penso che due sfide importanti attendono ora i partiti di opposizione. Prima di tutto, devono uscire dall’ombra e farsi conoscere dal grande pubblico in Tunisia. E poi, devono insieme organizzare un grande fronte di resistenza all’imperialismo. In effetti, le potenze imperialiste cercano di mantenere il sistema Ben Ali senza Ben Ali. Si tenta di realizzare questo con il governo di unità nazionale, che però i Tunisini rigettano, e questo rifiuto è decisamente positivo. Ma le potenze imperialiste non vogliono arretrare di un passo. Esse esigono di imporre una commissione elettorale internazionale per appoggiare i candidati che andranno a difendere al meglio i loro interessi. Dunque, è necessario resistere all’ingerenza con la creazione di un fronte unito per costruire una effettiva democrazia.
I partiti di opposizione sono in grado di superare le loro divergenze per creare questo fronte?
Io sono a conoscenza che alcune formazioni politiche erano reticenti all’idea di associarsi al movimento islamico nazionalista Ennahda. Questo movimento ha fatto la sua comparsa negli anni ’80. Ha predicato una linea anti-imperialista e di fatto ha subito la repressione politica. Perché non associare Ennahda in un fronte di resistenza all’ingerenza delle potenze straniere? La Tunisia è un paese musulmano. Dunque, è normale che in questo paese emerga una forza politica con una tendenza islamo-nazionalista. Non è possibile impedire questo.
Ma ciascuno di questi movimenti deve potere essere analizzato separatamente, con le sue proprie specificità. Questo è quello che hanno fatto i comunisti del PTPD. Hanno studiato con metodo scientifico le condizioni oggettive che si applicano alla Tunisia. La loro conclusione è che i comunisti e gli islamo-nazionalisti sono stati vittime della repressione politica e quindi, anche se i loro programmi divergono, essi condividono una piattaforma comune: vogliono la fine della dittatura e l’indipendenza della Tunisia. Perciò, i comunisti hanno proposto un’alleanza con gli islamo-nazionalisti già da molto tempo. Per certo, il PTPD non vuole fare della Tunisia uno Stato islamico. Il suo programma politico differisce da quello di Ennahda. Ma è il popolo tunisino che dovrà emettere democraticamente un giudizio su queste differenze. Le elezioni dovranno essere una competizione aperta a tutti. Ecco la vera democrazia!
Giusto, i partiti di opposizione si sono riuniti nel fronte “14 gennaio” per lottare contro il governo provvisorio di Mohamed Ghannouchi, un soggetto della fazione dell’ex presidente Ben Ali. Un segnale incoraggiante?
Incoraggiante del tutto; la Tunisia è su una buona strada: tutti i partiti di opposizione fuori legge fino a questo momento hanno creato un fronte per impedire che il sistema Ben Ali possa conservarsi anche senza Ben Ali. Bisogna sottolineare anche il ruolo giocato dalla base del sindacato UGTT (Union Générale Tunisienne du Travail). La dirigenza al vertice di questo sindacato autorizzato sotto Ben Ali era corrotta e collaborava con lo Stato di polizia. In seguito, la base del sindacato ha esercitato pressioni sui dirigenti, e i membri dell’UGTT che facevano parte del governo di transizione sono stati costretti alle dimissioni. Anche se rimane molto da fare, la democrazia conquista le istituzioni tunisine sotto la pressione del popolo.
Le potenze occidentali si oppongono a tutto questo. Vogliono imporre in Tunisia una democrazia a bassa intensità, in cui solo i “buoni” candidati avrebbero il diritto di presentarsi alle elezioni. Se voi gettate lo sguardo sul tipo di democrazia che gli Stati Uniti apprezzano, voi cadrete sull’Etiopia. Per l’anno 2010, il governo degli Stati Uniti ha fornito a questo paese del Corno d’Africa 983 milioni di dollari. Sempre nel 2010, il primo ministro Meles Zenawi, in carica da 16 anni, è stato rieletto con il 99,5 per cento dei voti! Ancora meglio di Ben Ali! Questa è la realtà: dietro ai loro bei discorsi di sostegno al popolo tunisino, le potenze occidentali continuano a sostenere attivamente molti altri Ben Ali nel mondo.
Gli Stati Uniti non potrebbero sostenere altri candidati filo-imperialisti, ma che, agli occhi dei Tunisini, non sarebbero associati all’era Ben Ali?
Sarebbe difficile. Esiste sì una parte della “borghesia compradora” che è stata danneggiata dal sistema corrotto di Ben Ali. Ma questa élite non è così forte da poter controllare il movimento popolare e non è tanto ancorata all’establishment per imporsi.
Gli Stati Uniti avevano pensato anche ad una diversa strategia: qualche mese fa, quando Ben Ali era ancora al potere, l’ambasciatore degli Stati Uniti ha fatto visita ad un leader comunista in prigione. Ufficialmente, una semplice visita di osservazione nel quadro del rispetto dei diritti umani. Ufficiosamente, gli Stati Uniti anticipavano la fuoruscita di Ben Ali e volevano saggiare il terreno. Il loro obiettivo era quello di mettere i comunisti contro gli islamo-nazionalisti, dividere la resistenza all’imperialismo per meglio indebolirla. Ma i comunisti tunisini non sono caduti nella trappola. Essi conoscevano molto bene questa strategia messa a punto per il Medio Oriente da Henry Kissinger negli anni ’80. Hanno pubblicato uno studio ben condotto sull’argomento e si dimostrano consapevoli che non devono ricevere ordini dall’esterno, né aderire ad ideologie fabbricate da potenze straniere.
Perché gli Stati Uniti hanno abbandonato Ben Ali? Si era spinto troppo avanti nel processo di arricchimento personale? In un cablogramma Wikileaks, l’ambasciatore statunitense si dimostrava molto critico nei confronti del sistema quasi-mafioso del presidente tunisino, la corruzione organizzata poteva ostacolare gli investimenti delle imprese straniere.
Non è questo il problema. Gli Stati Uniti non si inquietano per la corruzione. Al contrario, questa costituisce un elemento del sistema di dominio degli Stati Uniti sui paesi del Sud del mondo. In realtà, Washington si rendeva conto della situazione interna alla Tunisia e sapeva che Ben Ali non sarebbe stato più in grado di governare. Attualmente, gli Occidentali devono essere ben sicuri che il rimpiazzo di Ben Ali continuerà a difendere i loro interessi. La posta in gioco è di assoluto rilievo. La crisi capitalista causa seri problemi in Occidente. Accanto a ciò, la Cina vede aumentare la sua potenza economica ed oggi accorda più prestiti della Banca Mondiale e delle potenze imperialiste messe insieme. Per giunta, la Cina vuole assumere una parte importante del debito dell’euro-zona, da un canto perché ha interessi economici con i paesi europei, e d’altra parte per creare divisioni fra le potenze imperialiste, visto che l’Unione Europea è storicamente associata agli Stati Uniti.
In questo contesto, il movimento popolare tunisino, sotto l’egida di una leadership rivoluzionaria, potrebbe insediare un governo indipendente e approfittare di questa situazione di un mondo multipolare. Le potenze imperialiste temono che i paesi che tradizionalmente stavano sotto il loro dominio diventino economicamente indipendenti da loro, rivolgendosi verso la Cina. La Tunisia potrebbe costruire relazioni con il gigante asiatico sviluppando i suoi porti commerciali. E così rimetterebbe seriamente in ballo il concetto di dialogo mediterraneo, questa estensione della NATO ai paesi del Mediterraneo, che non è un dialogo ma un puro strumento di dominio occidentale.
Un altro paese che sembra paventare la democrazia in Tunisia e nella regione: Israele. Poco dopo la caduta di Ben Ali, il vice primo ministro Silvan Shalom ha dichiarato che lo sviluppo della democrazia nei paesi arabi costituirebbe una minaccia per la sicurezza di Israele. Questo paese, spesso qualificato come la sola democrazia del Medio Oriente, avrebbe timore della concorrenza?
Sotto una parvenza di democrazia, Israele è uno Stato fascista, uno Stato di apartheid. Quindi, nella regione non può che stringere alleanze con Stati dittatoriali repressivi, diretti da “borghesie compradore” che indeboliscono il corpo della nazione araba. Attualmente, questi Stati arabi sono dei paesi ricchi abitati da genti povere. Ma se fra questi Stati emerge un governo democratico, nel senso completo del termine, sarà la nazione araba nel suo complesso ad essere rafforzata economicamente. E questo sviluppo economico produrrà un’alleanza dei paesi arabi contro lo Stato razzista che opprime i Palestinesi. Evidentemente, Israele ha il terrore di tutto ciò.
Per di più, a proposito del conflitto israelo-palestinese, esiste una forte divaricazione fra le posizioni ufficiali delle dittature arabe e il sentimento popolare. Dopo che nel 1977 il presidente egiziano Sadat si è recato in Israele, questa è la posizione dell’Egitto: “Noi vogliamo la pace!”. Ma si trattava di una posizione imposta con la forza alla popolazione. E l’attuale governo egiziano non si accontenta di intrattenere relazioni pacifiche con Tel-Aviv, ma partecipa attivamente allo strangolamento di Gaza, quando invece la maggioranza degli Egiziani è solidale con i Palestinesi.
Questo vale anche per l’allineamento delle dittature arabe sulla politica di Washington. La Tunisia, l’Arabia Saudita o l’Egitto sono alleati degli Stati Uniti, quando le popolazioni di questi paesi sono anti-imperialiste. Mi trovavo in Egitto quando Mountazer al-Zaïdi, il giornalista iracheno, ha lanciato le sue scarpe contro Georges W. Bush. La popolazione egiziana lo ha celebrato come un eroe. Ho inteso dei padri che auspicavano che la loro figlia potesse sposarsi con uno come il giornalista. Al contrario, il presidente egiziano Hosni Moubarak è uno degli alleati più fedeli di Washington.
Lei pensa che la rivoluzione tunisina, per effetto domino, potrebbe innescare la caduta di altre dittature nel mondo arabo?
Il 70% della popolazione dei paesi arabi ha meno di trenta anni e non conosce altro che la disoccupazione, la repressione poliziesca e la corruzione. Ma tutti questi giovani vogliono vivere. E per vivere hanno bisogno di cambiamenti. Questa è la realtà di tutti questi paesi. Non c’è bisogno di un effetto domino, le condizioni oggettive concorrono a che altre rivoluzioni si scatenino.
Le popolazioni non vogliono più vivere come prima. Ma, d’altro canto, le loro classi dirigenti sono in grado di governare in modo diverso?
Evidentemente, no. Lo si può riscontrare nell’Egitto attuale. In questo paese ci sono poliziotti dappertutto. Ma è impossibile controllare tutto. Uno Stato di polizia impone delle limitazioni, e nel mondo arabo questi limiti sono stati superati. In più, oggi l’informazione gioca un ruolo molto importante. I Tunisini, gli Egiziani e i popoli del Terzo Mondo sono meglio informati, da una parte grazie ad Al-Jazeera e d’altro canto attraverso Internet e le sue reti sociali. L’evoluzione delle tecnologie dell’informazione ha aumentato il livello dell’istruzione e di presa di coscienza delle persone. Il popolo non è più una massa di contadini analfabeti. Voi potete trovare molti giovani decisamente scaltri, dotati di un certo senso pratico, capaci di aggirare la censura e di mobilitarsi su Internet.
Esistono in questi paesi delle forze di opposizione in grado di guidare rivoluzioni popolari?
Perché la repressione sarebbe tanto importante se questi dittatori non si sentissero in pericolo? Perché questa “borghesia compradora”, talmente avida, dispenserebbe tanto denaro nell’apparato repressivo se non avesse il terrore di essere rovesciata? Se non esisteva una opposizione, tutto ciò non sarebbe stato necessario!
Dal punto di vista degli osservatori occidentali, molti temono che la caduta di questi regimi favorisca l’imporsi dell’islamismo. Come riassume tutto ciò in modo tanto… fine ed arguto Christophe Barbier, il direttore della redazione dell’Express: “Meglio tenersi Ben Ali che i barbuti!”. Questi timori per un islamismo emergente sono fondati?
L’islamismo è divenuto il preservativo dell’imperialismo. Le potenze occidentali giustificano la loro strategia di dominio sul mondo arabo-musulmano mediante la copertura della lotta contro l’islamismo. Oggigiorno si trovano islamisti dappertutto. Fra poco, si troveranno tracce di Al-Quaïda perfino su Marte, se questo potrà essere di utilità agli imperialisti!
In realtà, l’Occidente ha sempre avuto bisogno di inventarsi un nemico per giustificare le sue mire egemoniche e le sue incredibili spese militari (finanziate dai contribuenti). Dopo la caduta dell’Unione Sovietica e la scomparsa del nemico comunista, a giocare il ruolo di brutti e cattivi sono stati individuati l’islamismo e Al-Quaïda.
Ma l’Occidente non ha alcun problema con l’islamismo. Si adatta molto bene a questa tendenza religiosa e politica in paesi come l’Arabia Saudita. Inoltre, per un certo periodo, è stato l’Occidente a favorire l’ascesa dei movimenti islamici per contrastare il nazionalismo arabo. Per l’Occidente, l’effettivo problema è costituito dall’anti-imperialismo. È per questo che tenta di gettare il discredito su qualsiasi movimento popolare nel mondo arabo che tenti di opporsi ai suoi interessi, appioppandogli l’etichetta di “islamista”.
Infine, non è necessario essere troppo maligni per pensare che le dittature arabe costituiscono dei baluardi contro l’ascesa del fanatismo religioso. Al contrario, questi regimi repressivi hanno condotto una parte della popolazione a radicalizzarsi. Chi potrebbe permettersi di affermare che questo o quel paese non ha diritto alla democrazia? In un paese realmente democratico, possono affermarsi differenti forze politiche. Ma la “borghesia compradora” al potere nelle dittature arabe non può convincere la popolazione. E nemmeno può affrontarla direttamente. Per difendere gli interessi imperialisti, bisogna dunque impedire ad altre forze politiche di emergere, altrimenti queste sarebbero in grado di convincere il popolo ad affrontare le élite corrotte. L’Occidente ha sempre cercato di mantenere stabili le dittature al servizio dei suoi interessi, agitando lo spauracchio dell’islamismo. Però, i popoli arabi hanno fame di democrazia. Oggi la reclamano e nessuno potrà contrastare le loro rivendicazioni.
* Mohamed Hassan è uno specialista di geopolitica e del mondo arabo. Nato ad Addis Abeba (Etiopia), ha partecipato ai movimenti studenteschi nel quadro della rivoluzione socialista del 1974 nel suo paese. Ha studiato scienze politiche in Egitto, prima di specializzarsi nel campo dell’amministrazione pubblica a Bruxelles. Negli anni '90, come diplomatico del suo paese di origine ha operato a Washington, Pechino e Bruxelles. Co-autore de “L'Irak sous l'occupation” (EPO, 2003), ha anche partecipato alla redazione di pubblicazioni concernenti il nazionalismo arabo e i movimenti islamici, e sul nazionalismo fiammingo. Hassan è uno dei più profondi conoscitori contemporanei del mondo arabo e musulmano.
Già apparsi nella serie “Comprendere il mondo musulmano” [e disponibile in lingua italiana a cura di Resistenze.org]:
Inoltre su Resistenze.org di Mohamed Hassan sullo stesso argomento:
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